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Raffaello a 19 anni...
Picasso a 18...
Picasso sosteneva che a 12 anni dipingeva come Raffaello. La maggior parte dei commentatori e dei critici, ancora affetti da un culto smodato e da una sorta di timore reverenziale verso il "genio" del XX secolo, considera tale affermazione non una frase di un artista, ma una verità assodata, anzi scontata. Persino il grande Jean Clair scrive: "A dodici anni, disegnava come Raffaello. Disponeva dell' intera eredità dell' epoca." [Corriere della Sera, 23 marzo 2004, p. 36]. Stefano Zecchi [Arte n.417, maggio 2008, Editoriale Giorgio Mondadori, p.10] addirittura scrive: "Con molti luoghi comuni banali (e anche volgari), che appartengono a un pensiero più o meno espresso dalla gente comune, si dice che Picasso dipingeva in quel modo, così irrispettoso di forme e figure naturali, perché non sapeva disegnare. Se qualcuno ha occasione di visitare il museo Picasso di Barcellona, si accorgerà come l'artista, giovanissimo, già a 13, 14 anni, conoscesse perfettamente l'arte dei nostri grandi maestri occidentali e fosse in grado di ridipingerla alla perfezione." Nientemeno! Amplificazione sbalorditiva di un luogo comune altrettanto banale e volgare, per non dire offensivo, quanto quello del "lo potevo fare anch'io".
Ebbene, dalle opere di Pablo Ruiz Picasso quindicenne conservate nel museo spagnolo si evince chiaramente che il ragazzino, pur dotato di talento precoce (agevolato in ciò dall'aver avuto un padre pittore e dall'aver cominciato a studiare pittura fin dall'infanzia), possedeva una tecnica non superiore a quella di un mediocre pittore di fine '800, oscillante tra l'accademismo e un impressionismo ridotto a bozzettismo di maniera. Il tutto condito di un marrone degno della peggior telaccia seicentesca.
Certamente non si giudica un dipinto soltanto per la sua complessità tecnico-esecutiva ma, parafrasando "F for Fake" di Orson Welles, chiunque può dipingere un falso Picasso, ma quanti un falso Raffaello?
Pietro Annigoni (1910-1988), La Bella Italiana, tempera grassa su tavola, 1951
«Si è creata una ben strana situazione oggi nel campo dell’arte [...] Può darsi che questa volta il bisogno di rinnovamento, che mai vien meno nell’uomo, ci abbia giocato un brutto tiro, spingendo alcuni audacemente spogliati d’ogni bagaglio, in generose avventure verso l’ignoto, forse più per reazione disperata alla monotona opera dei molti che riducevano a schemi vacui e qualche volta ignobili le conquiste dei grandi maestri, che per illuminata fede nella loro nuova affermazione.
Si sono spinti, costoro, verso l’ignoto, coinvolgendo nello sdegno verità e contraffazione e trascurando anche quei mezzi necessari all’esistenza e allo sviluppo dei loro tentativi.
Per quanto mi riguarda, le uniche novità che mi stanno a cuore e che mi spingono a fare, sono le mie gioie, i miei dolori, le mie emozioni e i miei entusiasmi nella vita come mi è stata concessa, in quel mondo che è il mio. Né so se sia novità seguir decisamente il proprio istinto e, innanzitutto, disegnare e disegnare, agognando di giungere a costruire con schietto carattere le parti e logica armoniosa l’insieme.
Con questo scopo, nella fede di riconquistare qualcosa dell’antica meravigliosa esperienza, di quel mestiere che, purtroppo, è andato perduto, ho lavorato sodo e senza transazioni fino ad oggi, in una solitudine che a troppi giovani fa spavento. Ma tanto più sarò padrone di que’ mezzi concreti che certa infatuazione poetica depreca, tanto più chiaramente esprimerò il mondo lirico che vive in me e del quale non dubito.
Aggiungerò a tal proposito che non posso fare a meno di sorridere quando certuni mi rimproverano o mi concedono troppa abilità: non sanno o non vogliono capire che ho bisogno di una ben maggiore abilità; e intendo proprio abilità di mano e di occhio, che se poi ha da essere diversamente intesa, quei tali, evidentemente, non si accorgono che le loro pennellate alla moda sono ben altrimenti abili che le mie. Per il racconto umano che io voglio fare rinunzierò dunque alle paroline preziose e adotterò un linguaggio comune che sia inteso dai più, ma non per questo, penso, lambiccato e manchevole.
Così posso concludere, che a parole ho detto troppo. Quello che più conta mi auguro di poterlo dire chiaramente e, il più chiaramente possibile, con la matita e col pennello.»
(Pietro Annigoni, in Annigoni, Gonnelli, Firenze, 1945)
Giovanni Iudice, Nudo e bottiglie, 2004, olio su tela incollata su tavola
Zoe ha detto...
"il nudo come linguaggio universale."
Il nudo come espressione della bellezza è certamente un linguaggio universale:
«La parola bellezza fino a qualche anno fa era un tabù. Usare nel giudizio estetico il concetto di bello era ritenuto sbagliato dai critici, perché sostenevano che in tal modo si rievocavano i fantasmi di una cultura antimoderna. Altri concetti appartenevano all’idea di modernità estetica, come la funzionalità, il rigore geometrico in architettura, come l’astrattismo, le combinazioni disarmoniche dei colori nelle arti visive. Il bello era un concetto inutile nel giudizio sulle arti. Ma non solo inutile, bensì anche errato. Perché adesso il concetto di bello viene “sdoganato” dalla nostra cultura, senza ritenere che ciò sia una provocazione nei confronti della modernità? Ma c’è anche da chiedersi in che modo viene considerato questo concetto di bellezza che si ripresenta nelle valutazioni estetiche, quale sia la sua vera utilizzazione. Sotto gli occhi di tutti è la crisi creativa che ha attraversato l’arte nell’ultimo decennio. Un friggere e rifriggere le stesse cose, un’assenza d’invenzione, un ripiegarsi su esperienze per le quali erano necessarie acrobazie retoriche da parte dei critici per giustificarne il significato. È l’architettura, l’arte che per il suo legame con la società è sempre anticipatrice di crisi e di innovazioni, a pretendere una svolta estetica. Troppo brutte le nostre città nelle realizzazioni moderne, troppa assenza di quella bellezza che favorisce nell’abitabilità l’incontro tra la gente e non la loro ghettizzazione, condizione prevalente in cui sono state realizzate le periferie urbane. Ecco che l’idea di bellezza può essere quel principio estetico intorno al quale ripensare l’arte per darle nuovo slancio e rimediare a errori del passato, causati proprio dal fatto che si giudicava del tutto inutile tale idea. Se questo fosse davvero il progetto estetico che trova nella bellezza il suo fondamento, significa che s’incomincia a percorrere il giusto cammino per il rinnovamento delle arti. Ma credo non sia così, credo che gli ex agguerriti avversari della bellezza siano ben lontani dall’ammettere di aver sbagliato in passato e di ritenere che oggi si debba voltare pagina. Molti segnali, come il recente Salone del libro di Torino che aveva nel concetto di bellezza il suo tema centrale, fanno supporre che le riflessioni in atto tendano ad annullare proprio gli aspetti di critica a un passato che aveva rimosso dai suoi giudizi estetici la bellezza, e a rendere così inefficace un progetto culturale fondato sul bello. In questi dibattiti sembra che bello e brutto siano interscambiabili, che, sostenendo l’impossibilità di una definizione di bello, sia impossibile anche una definizione di brutto. I concetti si relativizzano e perdono il senso della loro radicale differenza. Così la bellezza viene depotenziata del suo valore progettuale, mentre essa è essenzialmente visione creativa aperta al futuro e antagonista al brutto, essa è un significato utopico che non sarà mai alleato a un mondo nichilista e relativista.»
(Stefano Zecchi, in Arte, numero 422, ottobre 2008, Editoriale Giorgio Mondadori, p. 8)
Nudo di schiena, 2008, olio su cartone, 32 x 24 cm
«Il nudo fu per l’artista ciò che l’amore fu per cantori e poeti.»
Paul Valéry
(cit. in: Gilles Néret, Balthus, Taschen, 2004, pp.23-24)
Annette, 2005, olio su tela, 60x40 cm
«Molti pittori del XX secolo, da Cézanne a Giacometti, hanno deplorato la loro incapacità a dipingere una mela, una semplice mela. Più numerosi ancora sono quelli che hanno manifestato, senza ammetterlo, la loro incapacità di dipingere un nudo. Perché questa improvvisa impotenza dopo secoli di realizzazioni? Perché quello che era il banco di prova dell’arte di dipingere, il nudo, in altre parole la pittura “accademica”, che Tiziano, Giorgione, Poussin o Goya illustrarono, è diventata un’impresa impossibile?
Senza dubbio ci sono molti nudi nella pittura del secolo scorso, da Pablo Picasso a Lucien Freud. Ma perché ci sembrano così disparati e, si potrebbe dire, così disperati, quando il nome che li designa, “un’accademia”, presuppone al contrario la sicurezza del metodo e l’esultanza per il risultato? Perché, a proposito di “esultanza”, questa incapacità, perfino nell’artista, a far propria, nella mimica a cui s’abbandona, quell’assunzione trionfante dell’immagine nello specchio, in cui l’essere ancora indeciso si riconosce come “io”?
Se il nudo non è l’oggetto “totale”, almeno ne è il prototipo, quale il nostro immaginario ce lo fa vedere. Perché tale felicità e tale conoscenza ci sono rifiutate? Poter dipingere oggi un nudo, di nuovo, sarebbe come ritrovare la felicità che ci offriva la promessa di cogliere la totalità di un corpo.»
(Jean Clair, De Immundo, 2004 Éditions Galilée, 2005 Abscondita srl, p.75)
Tuttavia a mio modestissimo parere i nudi di Lucien Freud sono meravigliosi.
Il giudizio di Paride, 2008, olio su tela, 50x70 cm
«Nessun’arte è meno spontanea della mia. Quello che faccio è il risultato della riflessione e dello studio dei grandi maestri; ispirazione, spontaneità, temperamento, io non so cosa siano.»
Edgar Degas
(Maria Cristina Maiocchi, Degas e la pittura della vita moderna, 2008, Il Sole 24 Ore Arte e Cultura, E-Ducation, Firenze, p.8)
Dino Valls, Antìfona-Antiphone, olio su tavola, 84 x 70 cm, 1994
«La scena dell'arte contemporanea ha nondimeno anche testimoniato, in molte parti del mondo, un potente ritorno ad atteggiamenti conservatori, espressi sia attraverso l'uso di tecniche tradizionali, sia col ritorno ad immagini parimenti tradizionali. [...]
Per un certo numero di critici, il riconoscimento di questa tendenza apparentemente conservatrice implicherebbe l'abbandono del lungamente amato concetto di avanguardia - come qualcosa che esiste in perpetua opposizione a qualsiasi cosa possa cercare di soffocare la sperimentazione creativa. Questo mi sembra porre la questione nel modo sbagliato. Al principio del nuovo secolo una delle cose che dobbiamo chiederci è se le pose ribelli del secolo passato non siano in effetti diventate le ortodossie che ora impediscono il progresso. In anni recenti, una cosa che ho udito troppo spesso è il lamento “Ma quella non è avanguardia!”. Ciò che implica l'esistenza di vero avanguardismo è una totale fluidità di reazione e metodi di giudizio e misura costantemente mutevoli.»
(Edward Lucie-Smith, Art Tomorrow, Finest SA/Editions Pierre Terrail, 2002)
Balthus, Girl on a bed, Philadelphia Museum of Art
«“Ma è figurativo!” esclamava, delusa, la maggior parte dei visitatori il giorno del vernissage della prima mostra di Balthus, nel 1934, alla galleria Pierre a Parigi. In un periodo in cui non si vedeva altro che Surrealismo e Astrazione, il voler “reincarnare la pittura”, secondo l’espressione di Pierre Jean Jouve, rendeva il giovane pittore ventiseienne un emarginato, un artista contro corrente. […]
Del periodo tra le due guerre, tendiamo spesso a ricordare solo l’avanguardia. Ciò significa dimenticare che quell’epoca vide fiorire ovunque un nazionalismo esacerbato, che trovava espressione nel realismo monumentale al servizio del governo. La reazione fu di portata mondiale. Tutti si credevano eredi della tradizione e non fautori della sua liquidazione. Da Hopper negli Stati Uniti a Diego Rivera in Messico, in Europa non si cercavano più le lezioni degli Impressionisti o di Cézanne, ma quelle di Manet e di Courbet. Non erano le avanguardie a interessarli, ma la pittura del Quattrocento, e in particolare Piero della Francesca. In Italia i “Valori Plastici” avevano reagito all’iconoclastia futurista, così come in Germania un Dix o uno Schad, in rotta contro l’Espressionismo, si erano rivolti a quelli che chiamavano i maestri di una volta, da Dürer a Holbein. In Francia, con il “ritorno all’ordine”, formula coniata da Derain e da Lhote, espressioni come “realtà contemporanea” si diffondevano pian piano, acquistando una connotazione negativa, quella di essere contro l’avanguardia, e quindi reazionarie. Paul Valéry, definendosi il “Bossuet della III Repubblica”, esaltava questo “ritorno all’ordine”, nel Catalogo della mostra rivelazione “L’arte italiana da Cimabue a Tiepolo”, voluta da Mussolini a Parigi nel 1935. Era stata imboccata la strada pericolosa che avrebbe presto condotto alla minacciosa espressione del führer: “Ci sono ancora pittori che vedono le cose diverse da come sono”. […] La deviazione del “realismo”, a servizio dei “Cesari”, prendeva piede provocando, dopo la Seconda Guerra mondiale, un ritorno alle avanguardie, sinonimo di resistenza alle barbarie, che avrebbe di nuovo gettato l’obbrobrio sul figurativo. […]
Ciò mostra quanto violento fosse l’ostracismo nei confronti della raffigurazione e quanto lo sarebbe stato anche in seguito. […] A Balthus l’amico Giacometti, scampato a un altro tipo di autorità magistrale, quella di André Breton, poteva dichiarare, nel 1934: “… il giorno in cui mi sono ritrovato sulla strada, deciso di nuovo a dare una riproduzione fedele delle figure umane come un debuttante della Grande-Chaumière, mi sono sentito felice e libero…” Ai critici che l’accusavano di realismo retrogrado, Balthus rispondeva: “Il reale non è ciò che credete di vedere. Si può essere realisti dell’irreale e figurativi dell’invisibile.” Segnato dall’ossessione di temi erotici profondi, sorrideva irriverente: “Io faccio del Surrealismo alla Courbet!”»
(Gilles Néret, Balthus, Taschen, 2004, p. 7 e pp. 27-28)
Jean-Louis Ernest Meissonier (1815-1891), Coup De Vent, olio su tavola, 19,2x26,6 cm
Tanto è sublime la Bagnante di Bouguereau, quanto sono leziose le sue Ninfe. La gran parte dei pittori accademici del XIX, compreso Francesco Hayez, non si salvarono da questa condanna al cattivo gusto. Ma cos'è il gusto, e chi ne detta le leggi? Ancora il Marangoni, contraddicendosi, ci illumina:
Addirittura impagabile è il feroce, esilarante giudizio di Degas sulla pittura di Meissonier: « C’est tout en acier, sauf les cuirasses qui sont en carton! », d’altra parte, addirittura sbalorditivo l’altro di Van Gogh il quale — dio glielo perdoni! — diceva di stimare il Meissonier come un maestro « qu’on ne peut dépasser ». Tanto possono essere gli artisti privi di senso critico!
(Matteo Marangoni, Saper vedere, 1947, Milano, Garzanti, XVIII ed., 1960. p. 65)
Adolphe William Bouguereau, Le ninfe e il satiro, olio su tela, 1873, 260 x 180 cm, Sterling and Francine Clark Art Institute, Williamstown, Massachusetts
Marangoni docet:
LA «DEFORMAZIONE»
«Tutto quello che non è leggermente deforme è qualcosa di insensibile... l'irregolarità è il segno caratteristico della bellezza.»
(BAUDELAIRE)
Deformazione (con rispetto parlando), disgraziato vocabolo, scandalo di tutti i benpensanti, eppure così innocente incolpevole cosa! Voce, se non altro, infelice, perché si presta a equivoco, richiamando subito alla mente il significato usuale di deforme e, storicamente, il vistoso, ostentato deformismo di troppi sedicenti artisti dei nostri giorni.
Ma soprattutto la voce «deformazione» è infelice perché tradisce l’esistenza latente del preconcetto della verosimiglianza, in quanto ne è quasi un riconoscimento implicito. Deformazione vorrebbe, infatti, significare come un allontanamento da una forma modello prestabilita; e quale sarebbe questa forma modello se non la natura? Ma sappiamo oramai che l’arte non è imitazione della natura, e bisognerà quindi concludere, anche a rischio di scandalizzare tanta gente ammodo, che l’arte è sempre deformazione o — se più vi piace — astrazione formale, lirismo, stile.
[...] nessuno potrà mai dirci dove finisca la giusta deformazione e dove incominci il falso deformismo, se non affidandosi, come sempre, alla propria esperienza e sensibilità critica.
Ne consegue che è assurdo e anche inopportuno dettar leggi a priori e gridare allo scandalo, contro la libertà dell'artista. Non è l’arte che deve seguire la teoria, ma questa quella. Tutte le iniziative rivoluzionarie teoriche sono state per l'arte sterili: Vasari-Accadcmia, Carracci-Eclettismo, Winckelmann-Neoclassicismo, Ruskin-Preraffaellisrno. E l'Ojetti avrebbe voluto lanciare un nuovo ennesimo neo-classicismo, anzi una nuova accademia per l'ennesima volta!
Dal momento che anche l'arte — come tutte le cose di questo mondo — si giudica dai risultati, le vie per giungervi saranno tutte egualmente legittime e genuine quando portino, in un modo o nell'altro, alla vera arte; ed è quindi assurdo distinguere e canonizzare a priori su la deformazione più o meno... deforme […].
Persino della gente spregiudicata e fine non si salva da questo tranello quando scrive che «la storia della deformazione corre, più o meno, nella scia della storia del Cristianesimo» (Tinti); come se Fidia stesso o Prassitele non fossero anch’essi dei... deformatori, certo meno vistosi degli scultori prefidiaci o costantiniani, ma altrettanto, anzi ancor più profondi, sottili, intimi deformatori della natura, rispetto ad essi, come Raffaello lo è rispetto ad un trecentista o ad un barocco.
Questo pregiudizio deriva, secondo me, dal solito errore di considerare gli elementi del linguaggio dell’arte come simboli dell’animo dell’artista e non come il suo animo stesso concretato in quelle forme. Così rettamente valutati, invece, tutti i linguaggi sono legittimi e genuini, e quindi non confrontabili tra di loro né, tanto meno, gerarchicamente classificabili secondo una maggiore o minore deformazione! Altrimenti si ricadrebbe, larvatamente, nell'eterno equivoco di prendere a confronto la natura. Perciò, come vedremo, non si dovrà neppur dire che una Madonna, puta caso, di Grünewald — uno dei più vistosi deformatori — sia più deformata di una Madonna del suo contemporaneo Raffaello […].
Bisogna dunque riconoscere che tra classico e anticlassico — dal punto di vista della deformazione — è questione soltanto, diciamo, di quantità; e che sono quindi, se non altro, inutili le iniziative e gli ammonimenti di certi artisti e critici reazionari contro le deformazioni in genere e in favore della «correttezza » (!) classica.
Perché se le sciocchezze di certi novecentisti sono più... macroscopiche, le altre dei novelli neoclassici reazionari, per quanto meno vistose, sono lo stesso, se non più, condannabili perché altrettanto calcolate ma, oltre questo, persino... meno divertenti.
In tutta l’arte figurativa ci fu un solo momento che fece eccezione e che dette dei prodotti in cui non si vede traccia di deformazione: momento che è, per l'appunto, uno dei più tristi della storia dell’arte: il periodo verista della seconda metà del secolo XIX; quello a cui appartennero un Meissonier, un Géróme, un Bouguereau e da noi un Barabino, un Ussi, un Maccari e tanti altri. L’ideale di questi pittori fu, appunto, quello di copiare la natura supinamente, con la convinzione che il vero naturale fosse quello stesso dell’arte; senza, naturalmente, riuscire a raggiungere neppure questo loro mediocre ideale. Perché « verità, in arte, è quella il cui contrario può essere ugualmente vero » (Oscar Wilde).
(Matteo Marangoni, Saper vedere, 1947, Milano, Garzanti, XVIII ed., 1960. pp. 61-64)
Adolphe William Bouguereau, Bagnante, 1870
«L’introduzione della bruttezza nell’arte moderna è cominciata con l’adolescenziale ingenuità di Arthur Rimbaud, che disse: “La bellezza si è seduta sulle mie ginocchia e me ne sono stancato”. E’ grazie a queste parole chiave che i critici ditirambici – negativisti a oltranza e odianti il classicismo come ogni topo di fogna che si rispetti – scoprirono le eccitazioni biologiche della bruttezza e le sue inconfessabili attrattive. Cominciarono a meravigliarsi di una nuova bellezza che dicevano “non convenzionale”, e vicino alla quale la bellezza classica diventava immediatamente sinonimo di leziosaggine.
Tutti gli equivoci erano possibili, compreso quello degli oggetti selvaggi, brutti come i peccati mortali (che essi realmente sono).
Per avere l’approvazione dei critici ditirambici, i pittori si affannavano a produrre il brutto. Più ne producevano, più erano moderni. Picasso, che ha paura di tutto, produceva cose brutte per paura di Bouguereau. Ma, a differenza degli altri, lo faceva volutamente, cornificando in tal modo quegli stessi critici ditirambici che pretendevano di trovare la vera bellezza. Ma poiché Picasso è un anarchico, dopo aver quasi pugnalato Bouguereau, usò la puntilla e diede il colpo di grazia all’arte moderna, producendo più cose brutte lui in un giorno che tutti gli altri in molti anni.
[…] Nel periodo algido della sua maggiore frenesia di bruttezza, mandai a Picasso, da New York, il seguente telegramma:
Grazie, Pablo! I tuoi ultimi e ignominiosi quadri hanno assassinato l’arte moderna. Senza di te, con il gusto e la misura che sono le virtù peculiari della prudenza francese, avremmo avuto una pittura sempre più brutta per almeno cent’anni, prima di arrivare ai tuoi sublimi adefesios esperpentos [Il termine è dello stesso Picasso. Letteralmente significa “personaggi brutti e ridicoli come spaventapasseri”. Tuttavia è probabile che Picasso associ a quest’idea quella di una certa immaterialità fantasmagorica. N.d.E.]. Tu, con tutta la violenza del tuo anarchismo spagnolo, in qualche settimana hai raggiunto i limiti e le conseguenze estreme dell’abominevole. E questo, come sarebbe piaciuto a Nietzsche, firmandolo con il tuo stesso sangue. Ora, non resta che tornare a volgere i nostri occhi a Raffaello. Che Dio ti protegga!».
(Salvador Dalì, I cornuti della vecchia arte moderna, Editions Bernard Grasset & Fasquelle 1956, SE srl, 2005, Milano, pp. 23-31)
Torso, olio su tavola, 70x30 cm, 2006
«Fra dieci anni si dirà che, come pittore, Picasso non era così bravo, e che Bouguereau non era così male».
(Salvador Dalì, I cornuti della vecchia arte moderna, Editions Bernard Grasset & Fasquelle 1956, SE srl, 2005, Milano, p. 28)
Invero ce ne sono voluti 50 per dirlo, e 100 ce ne vorranno per assodarlo
Il bacio, copia da Francesco Hayez, olio su tela, 40x60 cm, 2003
«Detesto il moderno. Cosa vuol dire essere moderno in pittura? I pittori di oggi non sanno nemmeno realizzare una frase pittorica. Prima, si doveva almeno imparare un po' di tecnica. Ricordo che quando Mirò ha mostrato i suoi primi quadri a Picasso, la sua risposta fu: "Mirò, come puoi fare cose simili alla tua età?". Mi sembra che il mio mondo non esista più. Non capisco nulla della nostra epoca. E' come se la bruttezza avesse invaso il pianeta».
(Balthus, cit. in: Gilles Néret, Balthus, Taschen, 2004, p.87)
Donna ranciata (dettaglio), olio su carta, 2008
«I critici della vecchia arte moderna sono stati ingannati e cornificati soprattutto dal “moderno” stesso. In effetti nulla è mai invecchiato più rapidamente e più malamente di tutto quello che, a un dato momento, essi hanno qualificato come “moderno”».
(Salvador Dalì, I cornuti della vecchia arte moderna, Editions Bernard Grasset & Fasquelle 1956, SE srl, 2005, Milano, p. 35)
La Meditazione, copia da Francesco Hayez, olio su tela, 50x70 cm, 2003
«Un'arte non potrebbe essere moderna perché morirebbe nel momento stesso della nascita. L'arte è ancora e sempre la memoria delle generazioni».
(André Derain, cit. in Arte, Editoriale Giorgio Mondadori, Settembre 2006, p. 53)