lunedì 5 maggio 2008

BALTHUS


Balthus, Girl on a bed, Philadelphia Museum of Art


«“Ma è figurativo!” esclamava, delusa, la maggior parte dei visitatori il giorno del vernissage della prima mostra di Balthus, nel 1934, alla galleria Pierre a Parigi. In un periodo in cui non si vedeva altro che Surrealismo e Astrazione, il voler “reincarnare la pittura”, secondo l’espressione di Pierre Jean Jouve, rendeva il giovane pittore ventiseienne un emarginato, un artista contro corrente. […]
Del periodo tra le due guerre, tendiamo spesso a ricordare solo l’avanguardia. Ciò significa dimenticare che quell’epoca vide fiorire ovunque un nazionalismo esacerbato, che trovava espressione nel realismo monumentale al servizio del governo. La reazione fu di portata mondiale. Tutti si credevano eredi della tradizione e non fautori della sua liquidazione. Da Hopper negli Stati Uniti a Diego Rivera in Messico, in Europa non si cercavano più le lezioni degli Impressionisti o di Cézanne, ma quelle di Manet e di Courbet. Non erano le avanguardie a interessarli, ma la pittura del Quattrocento, e in particolare Piero della Francesca. In Italia i “Valori Plastici” avevano reagito all’iconoclastia futurista, così come in Germania un Dix o uno Schad, in rotta contro l’Espressionismo, si erano rivolti a quelli che chiamavano i maestri di una volta, da Dürer a Holbein. In Francia, con il “ritorno all’ordine”, formula coniata da Derain e da Lhote, espressioni come “realtà contemporanea” si diffondevano pian piano, acquistando una connotazione negativa, quella di essere contro l’avanguardia, e quindi reazionarie. Paul Valéry, definendosi il “Bossuet della III Repubblica”, esaltava questo “ritorno all’ordine”, nel Catalogo della mostra rivelazione “L’arte italiana da Cimabue a Tiepolo”, voluta da Mussolini a Parigi nel 1935. Era stata imboccata la strada pericolosa che avrebbe presto condotto alla minacciosa espressione del führer: “Ci sono ancora pittori che vedono le cose diverse da come sono”. […] La deviazione del “realismo”, a servizio dei “Cesari”, prendeva piede provocando, dopo la Seconda Guerra mondiale, un ritorno alle avanguardie, sinonimo di resistenza alle barbarie, che avrebbe di nuovo gettato l’obbrobrio sul figurativo. […]
Ciò mostra quanto violento fosse l’ostracismo nei confronti della raffigurazione e quanto lo sarebbe stato anche in seguito. […] A Balthus l’amico Giacometti, scampato a un altro tipo di autorità magistrale, quella di André Breton, poteva dichiarare, nel 1934: “… il giorno in cui mi sono ritrovato sulla strada, deciso di nuovo a dare una riproduzione fedele delle figure umane come un debuttante della Grande-Chaumière, mi sono sentito felice e libero…” Ai critici che l’accusavano di realismo retrogrado, Balthus rispondeva: “Il reale non è ciò che credete di vedere. Si può essere realisti dell’irreale e figurativi dell’invisibile.” Segnato dall’ossessione di temi erotici profondi, sorrideva irriverente: “Io faccio del Surrealismo alla Courbet!”»

(Gilles Néret,
Balthus, Taschen, 2004, p. 7 e pp. 27-28)

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