lunedì 20 dicembre 2010

ONANISMO CRITICO 2


«A ogni epoca - a ogni autore? - il suo Chardin. È incredibile che questo geniale “prosatore” che dipingeva “a stretto contatto” del suo soggetto, abbia potuto ispirare apprezzamenti così opposti da apparire inconciliabili. Come far coesistere il pittore del pudore e dell’emozione contenuta di fronte alla fragile bellezza delle cose con l’”architetto” precursore dell’astrazione, l’artista delle virtù e della moralità borghesi col profeta della pittura pura? L’abbondante letteratura relativa a Chardin prodotta dopo la riscoperta del pittore tra la Seconda repubblica (1848-1851) e il Secondo impero (1851-1870) non ha saputo sempre resistere alla tentazione di insistere sulla sua modernità visionaria, sottolineando correlativamente la sua singolarità nella storia dell’arte francese a spese dei legami – innumerevoli - che lo uniscono ai suoi colleghi francesi o stranieri e, inoltre, alla storia della pittura europea. Così Chardin può figurare come un artista atipico in un secolo ritenuto superficiale, edonistico per non dire licenzioso [...]. Di uno splendore misterioso, risolutamente “pittorico” fino a disinteressarsi largamente della mediazione del disegno quando invece gli artisti del XVIII secolo disegnano tanto e così bene, la sua bravura, che lo pone allo stesso livello dei più grandi maestri dell’arte, contribuì ancora di più a fissare, quand’era ancora in vita, questa immagine ingannevole. Chardin conta così tra quei maestri che, con fracasso o silenziosamente, hanno potuto dare la sensazione di emanciparsi dalle condizioni storiche ed estetiche che li hanno plasmati. Questa idea di atemporalità di un’artista “trans-storico”, se non cessa di affascinare, deve tuttavia essere considerata con diffidenza proprio come quella, forse più pregiudizievole per un giusto apprezzamento della sua arte, della sua modernità. I primi a intuire la modernità della pittura di Chardin furono gli artisti del XIX secolo in rotta con l’accademismo, che stavano cercandosi febbrilmente dei precursori e lo convocarono, a questo scopo, a fianco di un Frans Hals che, come lui, accosta i tocchi di colore stesi a larghe pennellate, lasciando la dinamica della visione operare, a distanza, una fusione unificatrice che loro stessi disdegnano di portare a compimento. [...] Nel XX secolo e nel momento in cui i più grandi artisti continuavano a interrogare con profitto il maestro parigino, la critica, affascinata dalle nozioni di formalismo e di avanguardia, rovesciò la prospettiva fino all’irragionevole. È nota la frase di Malraux (Le voci del silenzio, 1951) - al quale delle idee vaghe e delle conoscenze incerte servivano da viatico per mettere liricamente il rapporto manifestazioni artistiche che tutto metteva invece in opposizione - a proposito della Vivandiera. Chardin, avendo operato “una distruzione segreta [della nozione di modello] a beneficio del suo dipinto” avrebbe in tal modo fatto un “Braque geniale [...] rivestito in modo appena sufficiente per ingannare lo spettatore”. In che modo questo accostamento forzato, falsamente audace, aiuta a comprendere meglio il quadro e le circostanze che hanno presieduto alla sua esecuzione? Oggi l’argomento della modernità si è completamente deteriorato per diventare il “mantra” col quale si calma il pubblico assicurandogli che un’opera da cui lo separano diversi secoli tende uno specchio immediato e compiacente al suo insaziabile e pigro narcisismo (guai a quelle che non passano l’esame e si vedono relegate nel ricovero delle aberrazioni del gusto da un’epoca all’altra!). La sorprendente associazione, a partire dal primo terzo del XX secolo, del nome di Chardin a ciò che fu uno dei grandi eventi della modernità, ovvero l’emancipazione della pittura dalla rappresentazione mimetica, dall’imitazione della natura e più in generale dal “soggetto”, non fu meno inopportuna. Il maestro francese avrebbe dunque anticipato una concezione dell’arte che non assegnerebbe alla pittura altro scopo che se stessa. Di fronte a questa asserzione, di cui è lecito pensare che l’interessato non avrebbe neppure compreso di cosa gli stessero parlando, bisogna ricordare alcune cose evidenti. La professione di Chardin consisteva non nell’elaborare in modo astratto delle costruzioni precubiste ma nel dipingere delle prugne, dei coniglietti o dei ragazzini assorbiti dai loro giochi in una maniera che sembrasse allo stesso tempo vera e naturale (ma cosa è più equivoco di questi concetti!) e che ottenesse il favore del pubblico. Specializzato, normalmente, nei generi ritenuti subalterni della pittura [...], Chardin fu un accademico assiduo, devoto, ed espose regolarmente al Salon. Rimise talmente poco in causa il primato della pittura di storia fissato dalla gerarchia accademica dei generi, che ambì ardentemente per suo figlio una carriera nel “gran genere”. [...] Poco istruito [...], spesso debole nel padroneggiare la prospettiva, segnato dall’orizzonte limitato proprio dell’ambiente di artigiani parigini in cui era cresciuto, ma dotato di una sensibilità pittorica eccezionale e di un sapere da professionista esperto, faticosamente acquistato, Chardin non ci guadagna niente a essere trasformato in pensatore astratto (o in discepolo di Newton e di Locke come si è congetturato). Il borghese parigino che visse negli agi dopo aver vissuto all’inizio miseramente [...] non ebbe niente del ribelle.»

(A. M. Du Bourg, Chardin, Dossier Art n. 272, Dicembre 2010, Giunti Editore S.p.A., Firenze - Milano, pp. 5-8)


ONANISMO CRITICO 1


Francesco Bortolotti, Soliloquio platonico, 2010, olio su cartone, 50x50 cm

Bruno Munari, l'osannato vate della creatività contemporanea, così si espresse nei confronti di quell'arte dei tempi nostri di cui è stato eletto, a torto o a ragione, santo patrono:

«Una scatola di plastica trasparente e piena di dentiere usate. Una merda [sic!] in scatola firmata dall’autore, dieci scatole da mezzo chilo. Un manichino da vetrina verniciato di bianco, un pacco di tela con centomila legacci di corde diverse. Una macchina che disegna scarabocchi. Un quadro fatto rovesciando il colore a caso. Una cartolina col paesaggio di Inverigo grande tre metri per due. Un tubetto di dentifricio grande dodici metri. Un particolare di un fumetto ingrandito. [...]

Ma che cosa dicono i critici d’arte che hanno il compito di chiarire questi problemi e divulgarli? Dicono che si tratta di un canto lirico della visualità frontale che evita il linguaggio a tutto tondo per un recupero dell’uomo nella problematica semantica entropica per una nuova dimensione fuori dal kitsch in un tempo oggettivato ludico e reversibile.

Ecco perché i ragazzi vanno a gridare tutti in coro la loro simpatia per i Beatles e vivono in case dove ancora ci sono attaccati ai muri buoni quadri dell'Ottocento, come si insegna a scuola [Munari 2003, 46-47].»

(citato in: Alessandro Dal Lago, Serena Giordano Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, 2006, Bologna, Società Editrice il Mulino, pp. 31-32)